Frammenti urbani
“Da quando i generali non muoiono più in battaglia
i pittori non son più obbligati a morire al loro cavalletto”.
Marcel Duchamp
Inverno.
Un impasto di pigmenti grigi stimola la melanconia del nostro sguardo.
Un segno di confine, tra cielo e mare, ci riconsegna burrascose fluidità.
Schiumose frustate, si schiantano su pontili e feriscono sentinelle di pilastri, snervandone così la loro tendinea ferrosa ossatura.
Un libeccio carico di salsedine ci induce a voltarci. Non siamo più soli, in lontananza scorgiamo una presenza. Sulla battigia, una prospettiva di tubi industriali, inermi, ci rapisce per la tonalità cromatica mai vista. Un caleidoscopio di stratificazioni rosse e rifrazioni arancioni si staglia nel cinereo monocromo atmosferico. Una figura china, di francescana memoria, con una sensibilità chirurgica incide queste superfici geometriche, sino ad estrarne alcuni frammenti:
RUGGINI
Come reliquie, le pone su una tela aurea preparata “Alla maniera d’oggi”, ci direbbe Giorgio Vasari. La messa a fuoco del nostro sguardo incornicia questa laica sindone – industriale. Rimaniamo in silenzio, di fronte a questo poema naturale della materia. Dopo qualche istante, le stesse mani raccolgono e difendono piccoli cilindri di cellulosa:
FILTRI
Piccoli atomi di carbonio formati da quattro filtri sembrano essere guidati da lievi respiri, nel tentativo utopico di inglobare il fiato d’artista di Piero Manzoni restituendo, così, una traduzione plastica delle emozioni.
Finalmente l’autore si volta verso di noi, percepiamo così il suo volto.
È Lorenzo Filomeni.
Gli artisti contemporanei, secondo Rosalind Krauss critica d’arte americana, sono costretti a reinventare “Il medium”. Lei non si riferisce al termine media, infatti colloca l’attenzione sul supporto per l’immagine, dell’opera d’arte. Così, in pittura è la tela, in scultura è il marmo, il legno o qualsiasi altro materiale di cui l’opera è fatta: questo è il medium.
Dunque, una connessione alchemica Naturalis – artificialis sembra essere la chiave che ci riconduce al duplice medium catturato dal diaframma dell’artista, il quale ci riconsegna un microcosmo plasmato di ruggini e filtri abbandonando, in questo modo, un logocentrismo rinascimentale, figlio di un’illusione pittorica carcerata in una gabbia prospettica. La differita della rappresentazione viene dissolta grazie all’ attraversamento del taglio della tela di Lucio Fontana. Un nuovo spazio vitale ci accoglie, ecco quel territorio magico di cui parlava Achille Bonito Oliva. Una sorta di novus locusdiviene il territorio deputato all’azione dell’artista. Dinnanzi a noi, si aprono gli illimitati spazi urbani della grande città, crocevia di strade che schiudono le proprie origini nella metropoli ottocentesca parigina. L’artista si muove in questo spazio metropolitano, sembra d’intravedere la sua sagoma presso le pont de l’Europe dipinto da Gustave Caillebotte nel 1881, così come sul ponte sollevabile ferroviario De Helf (Koningshavenbrug) di Rotterdam, dove Joris Ivens filmò il suo capolavoro: il documentario The Bridge nel 1928, appare che l’artista attenda, in compagnia di un gocciolio sinfonico, l’ossidazione del ferro. Nuovamente il suo profilo appare incrociare quello di Dustin Hoffman e Jon Voight, nel tentativo di raccogliere un filtro abbandonato per le strade di New York. In questi palcoscenici di ferro e cemento, l’artista si muove. Il suo sguardo indifferente e nello stesso tempo eccitabile viene attratto dall’odore alcalino degli scheletri urbani a discapito dell’ odore stantio della trementina degli atelier. Come un’ archeologo amanuense estrae le ferite della materia, le disinfetta iniziando così una ricostruzione informe di un altrove, molto cara a Georges Bataille, basata su un assemblaggio in divenire di frammenti. Sembra di assistere ad una pioggia, una sorta di dripping della ruggine mediato da un vorticoso virtuosismo della téchne. Ecco supporti monocromi accogliere tramature di detriti, spatolate di colore industriali tentano di suturare la fragilità di queste deboli cortecce ferrose. Forme di giottesca memoria sembrano offrirci vinili cromatici portatori di una ossidazione dodecafonica.
Sembrano fluttuare in assenza di gravità le sfere di Filomeni. Queste filtrosfere sembrano muoversi in cerca di approdi verso una metafisica dell’oggetto. Come un demiurgo ha deciso di modellare la materia a immagine e somiglianza delle idee, per far questo usa i numeri (per dare ordine al caos e farlo diventare cosmo). Con un semplice gesto applica diverse rotazioni ai filtri, perpendicolari, paralleli ai piani riuscendo a creare volumetrie architettoniche bicromatiche o morfologie floreali. Riusciamo a scorgere piccole mastabe dialogare tra loro. Bianchi confini tratteggiano circolari coperture. Questo modulo cilindrico è alla base di questa rimodulazione spaziale dell’oggetto. Harald Szeemann sosteneva che le attitudini possono diventare forma. Lorenzo Filomeni con i suoi comportamenti alternativi è riuscito in questo intento. Infatti, la sua scelta radicata nella seduzione del reale e mutuata dall’esperienza duchampiana ha reso possibile la creazione di un’ibridazione metropolitana, grazie al recupero di ruggini e filtri, riducendo così il pathos della distanza tra arte e vita di cui parlava Nietzsche.
Alessandro Bertozzi
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